Il mare, il buon bere, il mangiare bene e...chi più ne ha, più ne metta

25 aprile 2016

Risolio al profumo di primavera


Siamo in primavera, anche se col tempo che fa in questi giorni non sembrerebbe, e vale la pena di sfruttare al meglio gli ingredienti che questa stagione ci regala per preparare delle ottime ricette “verdi”, colore a cui decisamente la associo.
Per cominciare il ciclo di ricette primaverili, ho voluto racchiudere alcune materie prime tipiche di questo periodo in un buon risotto, che ha la particolarità di essere preparato nelle sue varie fasi senza l’utilizzo del burro, ma al contrario usando un ottimo olio extravergine biologico che ho scoperto da poco.
Si tratta dell’olio Clara, un prodotto marchigiano che di recente ho provato e che ho molto gradito per il suo fruttato intenso con spiccato profumo di carciofomandorla, erba fresca (ecco ancora la primavera!) e con un gusto poco aggressivo anche se con un leggero piccante sul finale. E’ un blend nato dalla sapiente unione di varietà di olive tipiche della provincia di Fermo e Ascoli Piceno, come il piantone di Falerone, il piantone di Mogliano, il sargano di Fermo, la tenera Ascolana, la Raggia e molte altre.
Il piatto che vi presento oggi ha nel suo titolo la parola “profumo”. Non è un caso, perché l’olio extravergine Clara è commercializzato in una attraente confezione che sembra proprio quella di un profumo. Ma al di là del profumo a cui assomiglia la confezione e che è particolarmente presente nell’olio Clara ad un’analisi olfattiva, il piatto che vi propongo è profumato anche per l’ottimo contributo di alcuni ingredienti che si trovano al suo interno, come il cipollotto e la menta.
Ecco allora la ricetta di questo fantastico piatto:

Ingredienti:
(per 4 persone)

Per il condimento del risotto:

3-4 zucchine romanesche
olio extravergine q.b.
6-7 cipollotti freschi
sale, pepe
4-5 rametti di menta
basilico e prezzemolo a piacere

Per il risotto:

350 grammi di riso Carnaroli
la parte verde dell’aglio fresco
brodo vegetale q.b.
olio extravergine q.b.
Pecorino Romano (per la mantecatura)
colatura di alici (facoltativa)

Esecuzione:

Preparare innanzitutto il condimento del risotto: tagliare le zucchine, dopo averle mondate e lavate, a rondelle sottilissime. Scottarle in una padella in poco olio extravergine per pochissimo tempo, fino a quando diventeranno soltanto più morbide.
Prelevare le zucchine dall’olio avendo cura di togliere quello in eccesso, farle asciugare su carta assorbente e dopo circa 15 minuti porle in un piatto insieme a del nuovo olio extravergine e ai cipollotti tagliati sottili (inserire anche la parte verde, senza salire però troppo in su nel gambo) Aggiungere tutte le erbe aromatiche tritate abbastanza finemente. Aggiustare di sale e pepe, mescolare bene e lasciar riposare per una buona mezzora. 


All’assaggio il composto avrà un sapore sempre più buono e direi primaverile col passare del tempo di riposo.
In una casseruola, intanto, far tostare il riso dopo aver aggiunto e fatto imbiondire in olio extravergine poco aglio fresco tagliato a piccole rondelle (ho scelto di inserire solo la parte del verde del gambo, che è più dolce e meno forte). Se volete, prima di tostare il riso, potete aggiungere anche un goccio di colatura di alici.
Dopo la tostatura, aggiungere a poco a poco del brodo vegetale fino ad assorbimento e continuare così, come per un normale risotto, fino a cottura.
Verso metà cottura, cominciare a inserire di tanto in tanto poche zucchine prelevate dal composto di cui sopra. A cottura ultimata, spegnere il fuoco e aggiungere le restanti zucchine con il loro olio e mescolare bene, affinché il risotto si insaporisca adeguatamente.
Infine mantecare (sempre fuori fuoco, ovviamente) con olio extravergine e una generosa manciata di Pecorino Romano.


Servire quando il riso avrà raggiunto la giusta cremosità e finire il piatto con dei giri concentrici di olio extravergine di oliva.
Buon appetito e buona primavera a tutti!

17 aprile 2016

Di caci e di pepi


Oramai a Roma ogni locale che offre cibo, sia esso una trattoria, un ristorante, un bistrot, un’enoteca o quant’altro sembra quasi obbligato ad avere nel menù almeno tre piatti tipici romani che fanno capolino molto più frequentemente e diffusamente di qualche tempo fa: la carbonara, la amatriciana e la cacio e pepe.
Un’esagerazione a mio avviso, perché si possono offrire tanti altri interessanti piatti, anche tipici, e soprattutto credo che questo tipo di primi debbano più propriamente essere offerti da un certo tipo di locali tradizionali (che dovrebbero prepararli come si deve) e non da tutti.
Ma il fatto che il ritorno alla tradizione fa moda e fa bello, ha portato purtroppo quasi tutti i locali a proporre questi monumenti della cucina romana (con relative offese indecorose, a volte, al nome e alla storia di questi piatti) e ce ne dobbiamo purtroppo fare una ragione.
Qualche volta però, per fortuna, qui a Roma se ne mangiano di veramente buoni, in certe circostanze anche in locali di qualità meno storici, rendendo anche, nella zona in cui lavoro, molto più piacevole la mia pausa pranzo.
Oggi vi parlo in particolare della cacio e pepe, piatto non semplice perché il condimento della pasta (tipicamente i tonnarelli) deve essere ben cremoso e non colloso e “mappazzoso” (per dirla con Barbieri), come purtroppo capita a volte.
Nelle vicinanze del mio ufficio, come accennavo, ho assaggiato nei mesi scorsi delle buone cacio e pepe.
La prima, con una piccola variante che non ci sta per nulla male, è quella di un ottimo locale che ho scoperto da poco. Si chiama Misticanza e si trova in Via Sicilia a pochi passi da Via Veneto. Un locale oltretutto molto carino e ben arredato, dove per ora ho assaggiato pochi piatti a pranzo, senza però perdermi una cacio e pepe molto buona.


Lo chef ischitano (di Forio, per la precisione) Ermanno Nicolella la prepara aggiungendo anche delle interessanti scagliette di lime, che sgrassano ed aromatizzano il piatto, che comunque presenta la giusta cremosità, fluidità e sapidità.
Di recente ho mangiato una buona cacio e pepe anche in Via Po, da Bucavino. Una breve pausa pranzo di pochi giorni fa al momento mi ha consentito di assaggiare soltanto questo piatto, ma presto sperimenterò altre loro preparazioni. Per il momento posso senz’altro dire che la cacio e pepe di Bucavino è eseguita correttamente, con un buon pepe di qualità, una buona cremosità e un ottimo tonnarello a supportare la salsa.
In zona via Salaria c’è poi un altro locale che si chiama “Mamma mia, che prepara anche una discreta cacio e pepe con scaglie grandi di pecorino a guarnire la buona salsa che dovrebbe però essere soltanto un tantino più fluida.


Per questa volta, ho completato il mio tour delle cacio e pepi. Probabilmente c’è ancora abbastanza da scoprire a Roma su questo fronte, anche se sappiamo già tutti quali sono i locali “top”.
Uno di questi è senz’altro Felice, dove tanti anni fa ho fatto conoscenza, proprio davanti ad una strepitosa cacio e pepe, con dei simpatici amici foodblogger che saluto e con i quali auspico si ripeta prestissimo una nuova “cacio e pepe night”, come la definimmo a suo tempo ;)

8 aprile 2016

Un etnologo al bistrot

Foto tratta dal sito www.raffaellocortina.it
Non credo di avervi mai detto che sono un assiduo lettore dell’inserto domenicale del Sole 24 Ore, un ottimo settimanale che parla di cultura in tutte le sue espressioni, dall’arte alla letteratura, dalla filosofia alla storia, dalla musica al cinema.
Ebbene, grazie a questo interessante supplemento e ad un suo bell'articolo ho scoperto un delizioso libro ("Un etnologo al bistrot") che consiglio a tutti coloro i quali, come me, amano la Francia e quegli affascinanti locali e “istituzioni” che rispondono al nome di bistrot.
Un libretto molto gradevole che si legge piacevolissimamente e scorrevolmente che riguarda appunto proprio questi luoghi, analizzati e sviscerati dall’autore (l’etnologo Marc Augé) sotto i più vari profili e punti di vista.
Il bistrot è un simbolo della Francia e, sia pur esportato in tutto il mondo, rimane sempre un emblema che la identifica, rappresentando un baluardo anche della città dove più sono presenti non solo fisicamente, e cioè Parigi.
Il bistrot è un luogo delle relazioni “di superficie”, dove non conta ciò di cui si parla (a volte si scambiano parole per non dire nulla), ma piuttosto i gesti che si compiono e le interazioni con le persone. Anche se bisogna ammettere che il bistrot non è soltanto un luogo di relazioni sociali, ma pure il posto dove ognuno ritrova sè stesso (al bistrot vi sono più persone sole che coppie) senza interagire con gli altri. O al massimo con un fidato cameriere che ben conosce i comportamenti dei clienti, anticipandoli, ed il modo di trattare gli habitués di questi locali.
Il bistrot è quindi un posto dove si vuole essere accolti ma al contempo anche ignorati, in quanto i rapporti con chi li frequenta sono assolutamente facoltativi.
Esso è un teatro della vita, in cui si è al tempo stesso attori e spettatori e dove si può stare per ore ad osservare tutto quello che accade nei tavoli vicini o in strada, analizzando storie carpite segretamente o solo intuite. Davanti ai suoi banconi di zinco (il centro di gravità di questi locali, secondo l’autore), alle sue sedie in legno, ai suoi arredi, ai suoi specchi, “vengono offerti frammenti di storie vissute in tempo reale delle quali chiunque può immaginare a suo piacimento quello che è successo prima e quello che succederà dopo”. Lo spazio del bistrot, in questo senso, può dirsi romanzesco.
Il bistrot rappresenta anche un altro tipo di spazio, quello cosiddetto intermedio: la mattina quando ci si reca al bistrot non si è più casa, ma nemmeno ancora altrove; al ritorno non si è ancora a casa, ma nemmeno più altrove. E’ una sorta, quindi, di prolungamento dello spazio domestico o un’anticipazione del ritorno a casa.
Parlando di bistrot nel libro non si può non citare il Commissario Maigret di Simenon che proprio dentro a questi locali, nel mentre beveva un calice di bianco, un liquore o una birra o assaporava l’ottima cucina locale che questi posti esprimono, è sempre riuscito a trarre decisivi spunti sui casi da risolvere, osservando da vicino o più da lontano i comportamenti di personaggi chiave delle sue inchieste, siano essi protagonisti o testimoni. E a noi tutti, amanti e lettori di Maigret, piace immergerci nelle atmosfere in cui agiva il Commissario e dove il bistrot aveva sempre un ruolo cardine, insieme a bettole di passaggio o alberghetti di provincia.
Oggi i bistrot stanno assumendo una naturale evoluzione, virando a volte su ”locali dependance” di quelli dei grandi chef, meno costosi e con un numero inferiore di piatti offerti ma sempre di qualità e innovativi (si parla a tal proposito della cosiddetta “bistronomie” che oggi tanto va di moda in Francia).
A me piace però pensare (e sperare) che i bistrot non si snatureranno troppo e che si possa continuare a mangiare presso di essi soltanto l’autentica cucina francese del territorio. Molti bistrot hanno un’origine regionale e sin dalle loro insegne, per dirla con Augé, “vi è una promessa di ghiotta autenticità, dove il sapore di un vino è associato al profumo di qualche specialità cucinata con tutti i crismi”.
Ed io, come l’autore del libro, non voglio e non vorrò mai rinunciare a una testina di vitello in salsa gribiche, a una fricassea di vitello o ad una splendida salsiccia aux deux pommes preparata classicamente e come Dio comanda.

3 aprile 2016

Il succulento Royal Wedding beef pie


Il piatto che vi propongo oggi è stato dedicato dal mitico chef Jamie Oliver alle nozze dei reali d’Inghilterra William e Kate, avvenute ormai alcuni anni fa.
E’ una ricetta che da tempo volevo provare e che ho visto per la prima volta in TV più di un anno fa, in occasione del ciclo di puntate “Jamie's Great Britain” diffuse dal Gambero Rosso Channel.
Ho trovato poi in rete la ricetta ed il video che per comodità vi linko qui e qui.
Si tratta di uno dei tanti succulenti “pie” che frequentemente si possono mangiare in terra inglese e che a me piacciono molto. In questo caso il piatto che vi presento è una sorta di stufato di carne ed orzo perlato rivestito di pasta sfoglia e accompagnato da verdure di stagione, che anche cromaticamente fanno da contrasto alla pietanza principale.
E’ una ricetta abbastanza lunga e laboriosa (preparata quando avevo più tempo e cioè durante le feste pasquali), ma con alcuni accorgimenti si possono accorciare i tempi di cottura e di realizzazione. Inoltre ho apportato alcune personalizzazioni sia perché mi piacevano di più sia perché non sempre ho trovato tutti gli ingredienti giusti.
Per il blog ho preparato una monoporzione quasi “finger”, mentre la restante quantità l'ho cucinata in un normale tegame da forno, mangiandola con la famiglia.


Ecco allora gli ingredienti, per 3-4 persone:

Per il ripieno:

2-3 cucchiai d’olio extravergine di oliva
1 noce di burro
qualche ciuffetto di rosmarino, foglia di alloro e del timo
1,5 cipolle rosse di medio calibro
circa mezzo kg di spezzatino di manzo che taglierete a cubetti di 2,5cm (nella ricetta originale si usa la carne dello stinco di manzo ed il suo osso, ma io non li ho utilizzati)
sale, pepe
1 cucchiaio di passata di pomodoro
200 ml di birra tipo stout (una “smooth stout”, per la precisione)
1 cucchiaio di farina
750 ml di brodo di carne
70 gr. di orzo perlato (io ne ho usato uno che cuoce in circa un quarto d’ora)
un paio di cucchiaini di mostarda
un paio di cucchiaini di Worcestershire sauce
50 gr. di Cheddar cheese

Per la pasta:

pasta sfoglia
1 uovo

Procedimento:

In una casseruola o meglio in una pentola a pressione (io ho usato la mia fidata Cataplana) versare l’olio extravergine e il burro. Aggiungere tutte le erbe aromatiche e far insaporire brevemente. Inserire le cipolle tagliate grossolanamente e farle appassire per circa dieci minuti. Aggiungere poi i cubetti di carne e far rosolare per bene. Salare e pepare. Unire quindi il brodo di carne, la birra stout, la passata di pomodoro e il cucchiaio di farina. Coprire con un coperchio e far cuocere a fuoco lentissimo per un’ora.
A questo punto è il momento di buttar giù l’orzo perlato che cuocerà in circa 15-20 minuti a tegame coperto (nel caso di orzo con cotture più lunghe, far cuocere fino a che non è pronto).
Scoperchiare e aggiungere poi la mostarda, la Worchester sauce e il cheddar grattugiato, mescolare bene e cuocere ancora per fare amalgamare questi ultimi ingredienti e comunque fino a quando la carne sarà morbida.
In una pirofila versare il composto di carne ed orzo e spennellare i bordi della stessa pirofila con un uovo sbattuto. Adagiarci sopra, a coprire l’intera superficie, la pasta sfoglia che deve essere spessa (circa 1 cm di altezza, la mia lo era un po' meno). Spennellare di uova anche la superficie della pasta sfoglia. Infornare infine a 180°C, finché la pasta esterna non sarà ben dorata.
Servire il pie tagliando parte della crosta, abbinandola con alcune cucchiaiate del suo ripieno e con un contorno di carote e piselli al burro, ad esempio.


Un goloso e sontuoso piatto che vale davvero la pena di essere preparato. Provare per credere. Ed insieme non potete che berci una fresca birra stout.
Bon appétit!